[A. Capitini, Attraverso due terzi del secolo, “La Cultura”, VI, 1968; poi in Id., Scritti filosofici e religioni, a cura di M. Martini, Fondazione Centro studi Aldo Capitini – Protagon Ed., Perugia 1998; ora in Id., Attraverso due terzi del secolo – Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze 2016]
Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa nell’interno povera, ma in una posizione stupenda, perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile.
Mio padre era un modesto impiegato comunale, e custode del campanile; suonava anche le campane comunali, e tutti noi in casa sapevamo farlo. Mia madre, che veniva dal vicino villaggio di Brufa, lavorava instancabile per la casa e come sarta, per altri. Avevo un fratello, maggiore di me.
I primi venti anni della mia vita si sono svolti secondo un modello tipico. Precoce come sensibilità, riflessività e interesse per la lettura e anche per la poesia, non avevo nessuna guida, sicché mi fu una grande scossa l’incontro con la letteratura futurista, i suoi manifesti, i suoi programmi innovatori che mi presero per un po’ di tempo, dal 1913 al 1916, associandosi al nazionalismo di adolescente (leggevo fin da piccolo i giornali), e in contrasto col fondo del mio carattere, che invece preferiva letterati e poeti meditativi e moralisti, come Boine, Slataper, Jahier, e specialmente Ibsen.
Fu il periodo dei molti amici, delle esperienze varie e anche troppo varie e sciocche, della mescolanza di poesia e di grossa polemica, finché mi avviavo alla «conversione» che avvenne negli anni 1918-1919 dalla vita di «esperienze» all’austerità, dal nazionalismo all’umanitarismo pacifista e socialista, dalle letture contemporanee allo studio delle lingue e letteratura latina e greca, che cominciai con la massima tensione nel 1919 da zero, visto che, per povertà, ero stato indirizzato agli studi dell’istituto tecnico.
Autodidatta accuratissimo, in condizione di povertà per le grammatiche e i classici che compravo ad uno ad uno, sottoponevo la mia gracile costituzione fisica (che mi aveva risparmiato il servizio militare e la guerra) ad uno sforzo che mi portò all’esaurimento e alle continue difficoltà del sonno e della digestione: così oltre il classicismo letterario e quasi filologico, la conoscenza della Bibbia e la vicinanza al Leopardi, acquisii in quegli anni l’esperienza della finitezza umana, del dolore fisico, dell’inattività sfinita in mezzo alle persone attive, un’esperienza che con la componente della costruzione culturale, era la componente della ricerca etico-religiosa, già da anni indipendente dalla religione tradizionale.
Sapevo bene gli erramenti che mi ero lasciato alle spalle, che furono anche quelli del primo ventennio del secolo in Italia. Avevo imparato perché il «classico», il «morale», le beatitudini evangeliche, la democrazia e il socialismo, erano dei valori, ci ero arrivato dopo l’eversione, il disordine, il dannunzianesimo, il marinettismo, le «parole in libertà».
Avevo un senso così serio, umano e autentico delle «strutture», che il fascismo non mi prese minimamente, e se non partecipai attivamente alle iniziative politiche opposte fu soltanto perché ero tutto preso alla mia costruzione culturale e dai malanni. Oggi mi pare quasi impossibile che né la «Rivoluzione liberale», né i socialisti né Gramsci mi abbiano preso, tra il 1921 e il 1924, e io lo attribuisco anche al fatto che la fragilità della salute mi aveva indotto ad andare in campagna per rimettermi (facevo il precettore), e questo mi staccò dalle ripercussioni dirette della politica, che pur seguivo.
O forse si potrebbe dire che io dovevo «fare» solo quando avrei potuto dare «aggiunte» singolari e diverse, e in quegli anni veramente non ero ancora capace di dare qualche cosa, che doveva invece maturare per successivi momenti.
Nel ventennio dal 1924 al 1944 ho potuto mettere a frutto quel senso etico-classico dei valori e della vita, in un modo che indicherei mediante quattro punti:
- negli studi universitari a Pisa dal 1924, letterari all’inizio secondo l’impulso del primo ventennio e della conversione del 1919, passai sempre più agli studi filosofici specialmente dal 1933, che meglio mi servivano per costruire le giustificazioni dell’opposizione al fascismo e della costruzione libero-religiosa;
- alla posizione di intellettuale associai, dopo la Conciliazione e la vista del tradimento del Vangelo, il lavoro pratico di propaganda di idee, di cercare altri, di formare gruppi, lavoro che cominciai alla Normale di Pisa, dove ero segretario, nel 1931 e continuai con Claudio Baglietto (morto poi a Basilea nel 1940, esule e obiettore di coscienza), uniti nel diffondere nuovi principi di vita religiosa, teistica, nonviolenta (avevamo conosciuto la non collaborazione di Gandhi), antifascista; da allora io sono principalmente il ricercatore e il costitutore di una vita religiosa, in contrasto con quella tradizionale, leggendaria, istituzionale, autoritaria, e compromessa fino al collo con la guerra, i privilegi, le oppressioni delle società attuali; da allora ho sempre meglio chiarito per me e per gli altri che cosa significasse la più profonda apertura a tutti (sono stato colui che più ha usato nel periodo fascista il termine di «apertura», anche nei libri allora pubblicati;
- presa da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla non collaborazione, potevo avere una guida per dir «no» al fascismo (quando Giovanni Gentile mi chiese la tessera fascista per conservarmi nel posto della Normale), e soprattutto un modo per realizzare concretamente quel certo francescanesimo a cui tendevo da fanciullo, col vantaggio che mentre San Francesco era prima dell’Illuminismo, Gandhi veniva dopo il Settecento, con la serissima applicazione dei principi della libertà, fratellanza, eguaglianza (più che non abbiano fatto i borghesi che li avevano annunciati), e del valore fondamentale della ragione critica e della coscienza anche in religione; per oppormi alle guerre che Mussolini preparava, presi la decisione vegetariana, nella convinzione che il risparmio delle vite di subumani inducesse al rifiuto di uccidere esseri umani;
- la mia spinta alla politica, viva fin dalla fanciullezza (e dico prima dei dieci anni) finalmente si veniva concretando, anche per opposizione alla dittatura, in una sintesi di libertà e di socialismo, criticando nel liberalismo la difesa dell’iniziativa privata capitalistica e nel socialismo vittorioso la trasformazione in statalismo non aperto al controllo dal basso e alla libertà di informazione e di critica per ogni cittadino, anche proletario.
Dal 1933 al 1943 ho fatto propaganda girando in molte città e con frequentissimi incontri a Perugia, specialmente tra i giovani, per costituire gruppi di antifascismo; forse in quel periodo ho avvicinato più giovani di ogni altro in Italia: questo era noto, tanto che un amico mi disse enfaticamente «le donne partoriscono per te», e lo ricordo per insegnare il valore dell’attività nonviolenta che cerca e stabilisce le solidarietà, e può contare sull’esempio (in quel caso, il mio «no» al fascismo) e sulla parola.
Questa fu aiutata da molti fogli che facevo circolare, e da tre libri che pubblicai in quel periodo: gli Elementi di un’esperienza religiosa (da Laterza, 1937), Vita religiosa (da Cappelli, 1942), Atti della presenza aperta (da Sansoni, 1943).
Il primo libro fu fatto stampare dal Croce, che avevo conosciuto, mediante Luigi Russo, a Firenze (Adolfo Omodeo scrisse a Luigi Russo il 20 ottobre 1936: «Don Benedetto è tornato molto soddisfatto di un lavoro filosofico di un tuo scolaro di Perugia e me lo vuol far leggere»; ma non fui mai scolaro di Luigi Russo).
Mentre l’opposizione politica antifascista rinnovava i suoi sforzi, ed era continuamente stroncata dalle uccisioni e dagli arresti (Gramsci e i Rosselli morirono nel 1937), e mentre Mussolini vinceva in Africa e in Spagna, il mio antifascismo, con le sue ragioni religiose, aveva la forza di demitizzare le influenze esteriori e di chiedere tutta lanima.
Senza che io ponessi la nonviolenza come necessaria conseguenza; tanto è vero che i gruppi, specialmente dopo l’accordo che feci con Walter Binni prima, e poi con Guido Calogero, erano nettamente di indirizzo politico nei fini e nei mezzi, e per alcuni l’indirizzo fu esplicitamente di «liberalsocialismo».
Il mio proposito dal 1931, da «profeta» e «apostolo» religioso, che l’Italia si liberasse dal fascismo mediante la non collaborazione nonviolenta, proposito reso sempre più difficile dalla stretta collazione col fascismo della Chiesa romana, della Monarchia e dell’esercito, del Gentile e della maggioranza degl’intellettuali, diventava non previsione, ma lezione.
I miei amici si prospettavano i modi nei quali sarebbe stato possibile rovesciare la dittatura; e la guerra europea ne preparava l’attuazione; io non potevo che associarmi con loro nella diffusione dell’opposizione (e andai per mesi in prigione), ma, nello stesso tempo, non attenuavo per nulla il mio proposito.
Anzi nella prigione e durante l’esplicazione della rivolta partigiana (a cui non partecipai) mi si concretò l’idea dello stretto rapporto intersoggettivo che si esprimeva nella nonviolenza, e, nascosto in campagna mentre si sentivano i tedeschi passare nella notte lungo le strade, scrissi quel libretto La realtà di tutti (nella primavera del 1944), che completa la mia tetralogia antifascista, con un supremo appello alla compresenza di tutti.
Certo, io ero uno sconfitto. Ma soprattutto perché la mia attività non era stata capace di costituire «gruppi» di nonviolenti. Con persuasione nonviolenta c’erano stati, oltre me, amici fin dal momento pisano del 1931-32 e poi con Alberto Apponi ed altri, e perfino tra i partigiani ci furono alcuni, come Riccardo Tenerini e come Alberto Giuriolo, che non tolse mai la sicura al suo fucile. Ma eravamo sparsi, e nulla sapemmo organizzare che fosse visibilmente coerente, efficiente e conseguente ad idee di nonviolenza.
La lezione era che bisogna preparare la strategia e i legami nonviolenti da prima, per metterla in atto quando occorre; e nessuno può negare che in Italia nel 1924, al tempo del delitto Matteotti, e in Germania nel 1933, una vasta e complessa azione dal basso di non collaborazione nonviolenta sarebbe stata occasione di inceppamento e di caduta per i governi.
Nel quadro della spiritualità italiana e della formazione culturale ed etico-politica il mio lavoro si presentò, fin dall’inizio, come molto critico dello storicismo: fui tra i primi a fronteggiarlo, a mostrarne le insufficienze etiche. La mia provenienza era diversa, con un’apertura alle singole individualità e alla loro finitezza, con una severa considerazione dei mezzi rispetto ai fini, con la tendenza a vedere il rapporto intersoggettivo e la comunità di tutti anche oltre la realtà della vita e della morte.
Se si dovesse accennare a vicinanze culturali, ne nominerò tre: la filosofia etica del Kant, una ripresa (più spontanea che derivata) dei temi «morali» di alcune figure del primo ventennio: Michelstaedter, Boine, Clemente Rebora; un’apertura, alla molteplicità del tu-tutti, della teogonia dell’atto gentiliano.
Se i miei Elementi del ’37 potevano appartenere ad una letteratura esistenzialistica, per altro verso il richiamo al singolo era inquadrato, appunto in nome dell’«apertura» e di una escatologia. Il libretto degli Atti della presenza aperta espresse, nella forma letteraria di salmi molto sintetici, questa posizione costruttiva di apertura.
Mi pare che si realizzasse così quanto era stato cercato dai «moralisti» in Italia dall’inizio del secolo. E la mia disciplina costante era stata di utilizzare il Croce per ciò che egli poteva dare per la distinzione e la conoscenza dei valori, specialmente estetico, ma di non accettare l’immanentismo del suo umanesimo, e la sua etica e politica.
Mi pareva anche che io avessi fatto un notevole passo in avanti rispetto al modernismo e ai tentativi spiritualistici di riforma religiosa da Ernesto Bonaiuti a Piero Martinetti, due persone per cui avevo una profonda amicizia, ma che mi riuscivano, il primo, troppo esposto a illudersi sul cattolicesimo, il secondo, pur con contributi culturali notevolissimi, non atto a portarsi in un lavoro comune di riforma.
Con gli Elementi era apparsa la fiducia nella costituzione di attivi «centri» per una riforma religiosa, e ne era indicato, in fondo, già sorto uno, di una ricerca che da allora non si sarebbe interrotta, legato alla mia attività.
E dal punto di vista politico si era delineato un tipo di opposizione antifascista diversa da quella rappresentata successivamente dal Gobetti, dal Croce, dal Gramsci, dai Rosselli, dal Calogero. Qui non si tratta più di collocazione cronologica, del fatto che il mio antifascismo fosse già alle origini, ma dell’essersi esso costituito in tutte le sue giustificazioni e articolazioni separatamente da quelle altre forme, tutte di tipo umanistico.
Il mio sopraggiungeva non tanto per togliere a quelli, quanto per aggiungere una visuale sui mezzi e sui fini che quelli non avevano. La mia fiducia era che l’umanesimo del laicismo e del marxismo avrebbe avuto bisogno, un giorno, di un’ulteriore trincea, quella neo-religiosa, e mentre quell’umanesimo suscitava, anche nell’antifascismo, tante forze, io mi promettevo un discorso ulteriore. Quando vedo lo sviluppo che hanno preso oggi tre temi a me cari e congiunti in unità: il rifiuto di ogni guerra, la democrazia diretta con il controllo dal basso, la proprietà resa pubblica e aperta a tutti; e vedo le crescenti discussioni circa i temi cattolici, penso che avessi ragione ad aspettare da un periodo post-fascista la piena utilizzazione nel mio contributo.
Se io fossi morto nel 1944, dopo avere scritto in primavera La realtà di tutti, avrei già, con i quattro libri e le sollecitazioni portate personalmente, delineato una posizione teorico-pratica di riforma suscettibile di utilizzazioni, forse la più compatta dopo quella mazziniana dell’Ottocento.
Si è visto poi bene, nel successivo ventennio che il campo doveva essere occupato in buona parte da due potenti istituzionalismi, quello della Chiesa romana che ebbe una ripresa di potere in un clima di restaurazione, quello del partito comunista, che aveva il compito di volgarizzare il marxismo e di mantener viva una opposizione politico-sociale.
Fino al 1944 io non avevo formato, per la mia riforma, nulla di veramente istituzionale, ed ero isolato, fors’anche più di quanto alcuni pensassero. Se fossi morto, non ci sarebbe stato che ciò che avevo detto e scritto, e alcuni atti e decisioni; cioè il centro era stato una persona. Non potevo considerare il movimento del liberal-socialismo al quale avevo lavorato, costituendolo insieme con Guido Calogero, come la realizzazione della riforma come la volevo io.
Quello era stato un collegamento che poté attuarsi per qualche anno, mentre Giustizia e Libertà era esausta per le persecuzioni, e noi portammo temi freschi, una tattica accorta e penetrante, una duttilità fortunata. Ma quella era politica, e sempre più lo sarebbe diventata, fino alla costituzione in partito, che io non approvai, vagheggiando un lavoro più largo e di massa (come ho raccontato nel libro Nuova socialità e riforma religiosa).
L’impeto politico derivante dalla Resistenza armata, diverso dalla mia posizione di religioso nonviolento fino al sorgere di equivoci non agevolmente comprensibili, il fatto che io non fossi di nessun partito (forse fui il primo ad usare in Italia l’espressione «indipendente di sinistra»), portarono al mio progressivo isolamento, alla nessuna utilizzazione da me fatta del posto avuto in dieci anni di attivissima opposizione antifascista (in personale rapporto con tutti gli antifascisti significativi e clandestini in Italia), al disinteresse generale, o ignoranza, per il mio nome e i miei libri.
Ricominciavo veramente da una posizione di centro individuale, e mai forse parola è stata più adatta alle mie iniziative. Non posso negare che restava, almeno, una trama larghissima di amicizie, che non posso elencare perché occuperei pagine, e l’ho fatto, in parte, in altri scritti.
Nel campo intellettuale, nel campo politico specialmente dei laici, dei socialisti e dei comunisti, avevo avuto moltissimi contatti, sia stando a Pisa fino al 1933, sia a Perugia o altrove dal 1933 al 1944.
Dal 1944, in poco più che un ventennio, dovevo valermi delle condizioni di libertà e di tutte le agevolazioni che avrei potuto incontrare, tra cui quelle venutemi con l’insegnamento universitario, prima come incaricato a Pisa di filosofia morale, e poi come professore di ruolo di pedagogia dal 1956, prima a Cagliari e poi a Perugia.
Subito, dopo la liberazione di Perugia, nel luglio 1944 costituii il Centro di orientamento sociale (C.O.S.) per periodiche discussioni aperte a tutti, su tutti i problemi amministrativi e sociali. Fu un’iniziativa felice, che convocava molta gente e le autorità (tra cui il prefetto e il sindaco), molto desiderata da tutti per l’interesse ai temi e per la possibilità di «ascoltare e parlare»; e si diffuse nei rioni della città, in piccole città dell’Umbria, e in città come Firenze e Ferrara.
Nessuna istituzione la diffuse e la moltiplicò, e il mio sogno che sorgesse un C.O.S. per ogni parrocchia, era molto in contrasto con il disinteresse e l’avversione che, dopo pochi anni, sorse in molti contro un’istituzione così indipendente, aperta, critica; né si poteva dire che l’organizzazione ne fosse difficile; ci sarebbe voluta tuttavia voluta una virtù: la costanza.
Quella fu la prima iniziativa che presi per valermi della libertà e per preparare la «riforma» come la vedevo e la vedo. Tanto è vero che, dopo le difficoltà che portarono nel 1948 alla fine dei C.O.S., anche dopo una breve loro ripresa nel 1957, ho svolto e svolgo lo stesso tema mediante un foglio mensile «Il potere è di tutti», che propugna la democrazia diretta (o omnicrazia, come la chiamo), il controllo dal basso in ogni località e in ogni ente, i consigli di quartiere e i centri sociali, i comitati e le assemblee, la libertà di informazione e di critica, permanente e per tutti. Il tema si riconduce, come dirò poi, a quella riforma che io propugno in nome dello sviluppo della «realtà di tutti».
Non lo Stato antifascista, ma molto meno quello che seguì nel 1948, erano in grado di valersi dei C.O.S. ed inserirli nella struttura pubblica italiana, ad integrazione della limitata democrazia rappresentativa del parlamento e dei consigli comunali e provinciali. Né le forze dell’opposizione di sinistra, tese nella speranza di una presa del potere, si curarono di apprestare uno strumento così elementare per la convocazione della popolazione e dell’opinione pubblica, anche in considerazione della insufficiente diffusione dei giornali.
Si aprì invece il periodo in cui le ricche destre avrebbero rovesciato sugli italiani, e specialmente sugli strati meno politicizzati come quello delle donne, tonnellate di periodici illustrati; sostanzialmente di gusto antirivoluzionario ed evasivo.
Un’altra iniziativa fu quella del «Movimento di religione». Nell’ottobre del 1946, d’intesa con l’ex-prete Ferdinando Tartaglia, convocammo a Perugia un Primo convegno sul problema religioso attuale. Era una cosa nuova, insolita, inattesa per quanti non avessero percepito che nell’opposizione antifascista, nella tensione di aggiornare l’Italia al mondo, c’era anche, più o meno esplicito, il tema di portare il laicismo al punto di produrre la sostituzione di una nuova vita religiosa a quella tradizionale, derivante dalla Controriforma.
Al Convegno vennero molti e diversi amici (Spini, Pettazzoni, Mazzetti, Marcucci, Assagioli, Binni ed altri). Le relazioni introduttive furono di me e di Tartaglia: io indicai il lavoro religioso come consistente nella ripresa, nell’etica contemporanea, dei temi della mitezza, del perdono, della nonviolenza, e nell’apertura massima alla realtà di tutti, alla compresenza di tutti gli esseri; Tartaglia lo indicò nella tensione a porre un «puro dopo» la realtà e le società attuali, in una tramutazione di tutta la nostra vita, nella creazione di «atti nuovi».
Al convegno di Perugia seguirono altri fino al 1948; avemmo il modo di incontrare molti, di far gravitare su problemi vari, come quello della libertà religiosa in Italia e della situazione degli ex-preti (prova della durezza illiberale della Chiesa romana) e quello dell’obiezione di coscienza e della pace internazionale. Pubblicammo libri e articoli.
Quando Tartaglia si volse al lavoro personale della ricerca speculativa e sistematica sulle sue idee religiose (e promise di darne conto in libri), io continuai il Movimento per una riforma religiosa in Italia per anni e anni fino al 1954. Un congresso tenuto a Roma nell’ottobre 1948, molto affollato e con la presenza di molte forze del laicismo e del protestantesimo, si era voluto intitolare, a due anni di distanza dal Convegno di Perugia che era stato di assaggio, Congresso per la riforma religiosa, che naturalmente per noi, per Tartaglia e per me, non era interna al cristianesimo, ma su prospettive più larghe e indipendenti dai temi tradizionali.
Tartaglia poi si appartò, ed io continuai i convegni, specialmente romani, presentando l’approfondimento dei miei temi della realtà di tutti, dell’antiistituzionalismo religioso, della nonviolenza, e altri facendo affluire i temi del laicismo più deciso e più largo. Ma, francamente, l’interesse veniva declinando, e gli amici ormai si volgevano ad altri impegni o religiosi, o politici, o culturali.
Nel 1955 l’uscita del mio libro Religione aperta, messo all’Indice da Pio XII, segnò il punto di arrivo della Riforma religiosa da me impostata, riassumendone i temi e affidandola ormai alle posizioni del tutto personali di ciascuno.
Nello stesso tempo, anzi fin dal 1952, la costituzione a Perugia, in Via dei Filosofi, di un Centro di orientamento religioso (C.O.R.) per periodiche conversazioni e di un Centro per la nonviolenza aveva a poco a poco sostituito la convocazione di convegni romani con la sollecitazione a costituire centri, come a Perugia, il che poi nessuno ha fatto in modo continuato e aperto come a Perugia.
Se si pensa che da sedici anni fino ad oggi una volta la settimana si è discusso un tema solitamente di carattere religioso, si ha un’idea di quale stimolo e addestramento abbiano potuto beneficiare gli organizzatori, gli amici, i frequentatori spesso mutevoli. Io mi sento gratissimo a quel lavoro settimanale fatto non al livello dell’erudizione, ma della formazione di un orientamento di vita.
Le ragioni della critica storica neotestamentaria, l’utilizzazione di apertura anche nelle religioni istituzionali, il nesso della religione da un lato con la nonviolenza, dall’altro con la riforma della società, l’esigenza costante della libertà anche nella vita religiosa, sono stati temi ed esigenze ritornanti spontaneamente tante volte nelle nostre conversazioni, e creanti qualche cosa di comune tra noi di diverse posizioni, libero religioso io, altri evangelici, cattolici, bahai, ebrei, laici, marxisti. Abbiamo toccato temi ed argomenti, anche del giorno, di ogni genere.
Fino al momento di oggi, nel quale potrebbero avvenire cambiamenti, il mio lavoro religioso di decenni ha avuto, nella sua fedeltà, questi periodi e questi aspetti:
Dal 1931 al 1944 ha costituito il nucleo di una riforma, di limitata diffusione anche per le condizioni della dittatura, ispirata da una libera articolazione del gandhismo, in sintesi con elementi occidentali, da uno sviluppo dell’apertura anche nel campo di una nuova società.
Dal 1944 al 1968 ha fatto il più che ha potuto per creare strumenti di collaborazione sulla base dell’interesse religioso (Movimento di religione, Movimento per una riforma religiosa in Italia, religione aperta, Centro di orientamento religioso); ha delineato meglio gli aspetti teorici dal tema dell’apertura al tema della compresenza, in libri, articoli e «lettere di religione»; ha diffuso anche opere di polemica religiosa (con Pio XII, sul battesimo, sul Concordato).
Se la mia tensione in questo campo è stata ed è continua, e posso dire di avere aiutato molti a chiarirsi problemi particolari, e di avere sparso idee e termini, è bene riconoscere che il mio scrupolo di non forzare e di non istituzionalizzare, crescente negli anni, è stato tale da non tenere conto delle «adesioni», e di portare avanti piuttosto l’enunciazione di una vita religiosa come «centro» e non altro.
Dopo i movimenti degli anni dopo la Liberazione, sono arrivato negli ultimi anni, e fino a questo punto, ad un proposito di tenace approfondimento per me, per capire ed essere sempre più un ricercatore-costruttore e un fedele libero religioso, ma lasciando ogni incontro collaborativo al tempo e agli altri. Se la mia vita religiosa è risolutrice e utile, altri la rifaranno, e meglio di me. Io non chiedo che di condurla bene, con autenticità.
Una prova di questo aver diffuso temi e stimoli senza averne raccolto precise e fedeli risposte, sta non solo nel vedere come si svolge la problematica religiosa oggi, ma specialmente nel fatto che per la «religione» non posso citare quei contatti e quelle influenze che posso indicare per altri tre campi: la nonviolenza, la scuola, le idee sociali.
Nel campo della nonviolenza, dal 1944 ad oggi, posso dire di aver fatto più di ogni altro in Italia. Ho approfondito in più libri gli aspetti teorici, ho organizzato convegni e conversazioni quasi ininterrottamente, ho lavorato per l’obiezione di coscienza, ho promosso, attraverso il Centro di Perugia per la nonviolenza, convegni Oriente-Occidente, la Società vegetariana italiana, la Marcia della pace da Perugia ad Assisi del 24 settembre 1961, e poi il Movimento nonviolento per la pace e il periodico Azione nonviolenta che dirigo. Della Consulta italiana per la pace, una federazione di organizzazioni italiane per la pace sorta dopo la Marcia di Assisi, sono ancora presidente.
Sono, insomma, riuscito a far dare ampia cittadinanza, nel largo interesse per la pace, alla tematica nonviolenta. Come teoria e come proposte di lavoro, la nonviolenza in Italia ha una certa maturità. E qui, come dicevo, ho avuto più occasioni d’incontro che con la pura e semplice religione. In fondo, quando sono andato due volte a Barbiana, a parlare con Don Lorenzo Milani e la sua scuola, la discussione e l’esposizione non è stata altro che sulla nonviolenza, per la quale egli mi disse di convenire con me.
Per Danilo Dolci la cosa è stata più complessa. Sapevo di lui e gli scrissi quando egli fece il suo primo digiuno a Trappeto, per la morte di una bambina di stenti. Gli dissi che non aveva il diritto, prima che egli avesse informato sufficientemente noi tutti della situazione, e lo pregai perciò di sospendere il digiuno. Così siamo diventati amici e ho sempre seguito il suo lavoro; ho fatto conoscere a Danilo tutti i miei amici laici da Calamandrei a Bobbio, e tanti altri (egli era in partenza cattolico), l’articolazione dell’apertura religiosa e della nonviolenza, i miei articoli sul piano sociale e sul lavoro dal basso, mediante centri di educazione degli adulti e di sviluppo sociale.
Vi sono anche due campi nei quali ho lavorato con continuità, e che qui accenno senza illustrare: quello della libertà religiosa in Italia, stabilendo collaborazioni con laici, dal mio punto di vista di libero religioso per cui la libertà è indispensabile per tutti; e quello della difesa della scuola pubblica dalla pressione e dall’invasione confessionale, un campo nel quale promossi un’associazione che ha avuto anni di buona efficienza, l’A.D.E.S.S.P.I. (Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica italiana). Né intendo qui illustrare il lavoro per i problemi educativi, pedagogici (con una mia pedagogia diversa da quella umanistico-empirista), scolastici (con l’iniziativa di una Consulta di professori universitari di pedagogia), ai quali ho dedicato l’attività dell’insegnamento, e libri, tra cui i due recenti volumi di Educazione aperta.
Ma un campo, ancor più strettamente connesso con la profezia e l’apostolato religioso, è quello della trasformazione della società, per cui, rifiutando ogni carica offertami nel campo politico, ho piegato la politica, e l’interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un lavoro per la democrazia diretta, per il potere di tutti o omnicrazia (come lo chiamo).
Per me è intrinsecamente connesso con la religione, che, per me, è più della compresenza che di Dio; e perciò la compresenza di tutti (religiosamente dei viventi e dei morti) deve continuamente realizzarsi, come ho già detto, nell’omnicrazia; e chi è centro della compresenza, è centro anche di omnicrazia; ed è intrinsecamente connesso con la nonviolenza, di cui è l’idea politico-sociale. Il lavoro per i C.O.S., per il pacifismo integrale, per la proprietà pubblica aperta a tutti e creante continue eguaglianze, non sono che effettuazioni dell’interesse per l’omnicrazia.
Se dovessi indicare i punti dove ho espresso la tensione fondamentale, da cui tutte le altre, del mio animo per l’interesse inesauribile agli esseri e al loro animo, e perché ad essi sia apprestata una realtà in cui siano tutti più insieme e tutti più liberati, segnalerei due righe di un mio libro poetico, Colloquio corale (sulla festa), nel quale ho ripreso accentuando la compresenza, un modo di esprimermi lirico, già presentato negli Atti della presenza aperta. Il Colloquio corale (1955) è così poco noto (il libro di cui ho più copie nel mio magazzino di carte!), ed è invece così espressivo, che non mi oppongo alla tentazione di citare qualche cosa da esso piuttosto che da altri libri.
La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso alle persone.
La casa è un mezzo ad ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali ad incontrare occhi viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Ardo perché non si credano solo nei limiti.
Dilagarono le inondazioni, ed io ho portato nel mio intimo i bimbi travolti.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
Mentre il tempo taglia e squadra cose astratte, mi trovo in ardenti secreti di anime.
Torno sempre a credere nell’intimo.
Se mi considerano un intruso, la musica mi parla.
Quando apro in buona fede l’animo, il mio volto mi diviene accettabile.
Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.
Do familiarità alla vita, se teme di essere sgradita ospite.
Quando tutto sembra chiuso, dalla mia fedeltà le persone appaiono come figli.
A un attimo che mi umilio, succede l’eterno.
La mente, visti i limiti della vita, si stupisce della mia costanza da innamorato.
Soltanto io so che resto, prevedendo le sofferenze.
Ritorno dalle tombe nel novembre, consapevole.
Non posso essere che con un infinito compenso a tutti.
Il discorso fatto fin qui, prevalentemente di «prassi», non ha affrontato il mio lavoro filosofico. Ho approfondito soprattutto, nell’ultimo ventennio, la conoscenza del Kant e dello Hegel, e il singolare è che, malgrado le mie simpatie per il primo e per certi aspetti del suo pensiero etico, religioso e circa i valori, lo Hegel mi ha interessato profondamente, e l’ho studiato per anni e anni. Ciò che mi ha attratto, oltre la forte complessità del suo pensiero, è stato principalmente il proposito di calare gli elementi ideali nella realtà.
Ho spiegato largamente altrove (e specialmente nel libro Il fanciullo nella liberazione dell’uomo) questo tema. Mi è parso che proprio questo suo programma «realistico» fosse attuato, nel suo umanesimo immanentistico, in modo insufficiente, facendo condizionare gli elementi «ideali» da elementi «reali» assunti come insuperabili, quali lo Stato, la proprietà privata, la violenza, la morte degl’individui singoli. E che invece spetti proprio ad un programma religioso impostare «la discesa» degli elementi ideali (la compresenza di tutti nella produzione dei valori) nella natura e in una nuova storia.
Questo spiega anche il mio atteggiamento riguardo al marxismo, che ha avuto tanto sviluppo in Italia nell’ultimo ventennio. In quanto immanentismo di tipo hegeliano esso non va oltre lo stoicismo dell’individuo che si immola per l’avvento di una umanità liberata, ma in quanto pone il tema della «discesa» degli elementi ideali nell’umanità e in una tensione escatologica, il marxismo può essere un passo verso una concezione religiosa della compresenza.
È da rilevare anche come si presenta l’apertura religiosa alla compresenza: fuori di ogni pretesa ontologica di tipo vecchio, autoritario e sistematico, che «costringa» gli altri, ma come libera aggiunta alla base di ogni realtà, vedendo ogni essere nascere nella compresenza per sempre, oltreché nella natura che lo consuma; un’apertura pratica come ipotesi di lavoro, modesta e senza armi immanenti o trascendenti; un’ipotesi che è fuori da ogni verifica scientifica.
Bisognava che la concezione religiosa tradizionale, appoggiata dall’istituzione, entrasse nella crescente crisi che la dissolve, malgrado la vittoria sul modernismo e l’appoggio dello Stato fascista e del successivo. Specialmente dopo il Concilio, altro che modernismo si diffonde! e altro che intangibilità dei dogmi! Bisognava anche che le si contrapponesse la concezione marxistica, e che il popolo italiano, specialmente in alcuni strati e in alcune zone, si politicizzasse attraverso un laicismo comunista.
Si è visto poi che la cosa non era così semplice come pareva ad alcuni stalinisti nel primo decennio dopo la Liberazione; oggi, vista la rivoluzione violenta inattuabile e cresciuta l’esigenza di un’articolazione democratica in cui il «basso» conti effettivamente, ferventi comunisti arrivano a scrivere la formula «socialismo e libertà».
Dico questo delle due forze di massa in Italia, perché nel ventennio esse hanno occupato, anche con una larga produzione libraria, il campo in Italia. Perché si arrivasse a capire il valore e l’efficienza della sintesi da me proposta (di riforma religiosa, di metodo nonviolento, di democrazia diretta e proprietà pubblica) era necessario che dessero quanto potevano, mostrando i loro limiti, le due concezioni etico-politiche precedenti.
Difatti oggi erompono più chiare, anche se di gruppi limitati, le esigenze religiose e sociali, perlomeno nella forma di richieste più indipendenti e più severe di prima. Con ciò non voglio dire affatto che proprio le mie proposte religiose e politiche troveranno chi le farà sue e le svolgerà. Tutt’altro che questo!
Si vedrà molto del laicismo anche notevolmente critico accettare prima o poi l’influenza americana, anche se essa si farà meno democratica, ma giudicata da quei laici pur sempre il male minore, in una certa circolazione di culture e di beni. Si vedrà anche la spinta rivoluzionaria farsi sempre più estremista, attuando anche colpi violenti se non di guerra, di guerriglia, fino alla speranza di un controimpero che spazzi tutto il vecchio.
Dopo i due terzi di secolo siamo arrivati ad un punto da cui si vede tutto questo. Nell’ultimo terzo del secolo Croce e anche Gramsci saranno meno presenti nella nostra spiritualità. L’Europa, unita al Terzo Mondo e al meglio dell’America, elaboreranno la più grande riforma che mai sia stata comune all’umanità, quella riforma che renderà possibile abolire interamente le disuguaglianze attuali di classi e di popoli, e abolire le differenze tra i «fortunati» e gli «sfortunati».
Non con piani di assistenza e di elargizione sarà possibile costituire una nuova società nel mondo, in cui tutto sia di tutti, con la massima naturalezza, superando il vecchio individualismo borghese che ho visto così fiorente all’inizio di questo secolo. Ci vorrà una profonda concezione religiosa che abbia arricchito l’uomo, e fors’anche una grande semplificazione nella vita, che non impedirà ai più alti valori di avere il primato, perché diventi conseguente un modo di trattare tutti, nel modo più aperto, con crescenti uguaglianze, con la gioia di portare gli ultimi tra i primi. Questa comunità nella società sarà la premessa di una vittoria sulla stessa natura, diventata al servizio di tutti.
Non molto lontano dai settant’anni, e in un momento in cui meno che in ogni altro posso prevedere se potrò anche nell’ultimo terzo del secolo dare un contributo, questa visione religioso-sociale di tutti mi eleva. Ho insistito per decenni ad imparare e a dire che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro «puro dopo» la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata la compresenza.
Aldo Capitini
Perugia, 16 agosto 1968.